C’è un errore ricorrente che commettono molte aziende, i loro web designer e le loro agenzie di comunicazione – tutti insieme: costruire un sito che dà voce all’azienda invece che al suo target.
Certo, quando si fa una proposta di (re)design e/o di (re)branding è facile convincere la proprietà che “è arrivato il momento di raccontare l’azienda”; ma questa è una mezza verità, detta erroneamente temendo che la proprietà non sia matura per accettarne l’altra metà: e cioè che l’azienda deve essere raccontata dal punto di vista del consumatore… invece che dell’azienda.
È un po’ come se invece di mettere online “Cappuccetto Rosso” si mettesse online un monologo dei fratelli Grimm sul processo di creazione della fiaba: non il racconto per cui abbiamo aperto il libro, ma un’appendice, un contenuto speciale, da intenditori. È la differenza che corre tra “must have” e “nice to have”.
Capiamoci subito senza fraintendimenti: il “Chi siamo” / “About” è fondamentale. Ci deve essere, sempre. Sempre sempre sempre.
Ma tutto il sito, “Chi siamo” compreso, deve rispondere alle domande dell’utente: quelle che ha chiare in testa (“quanto costa questo prodotto?”) e quelle latenti (“mi sto avvicinando allo stile di vita che vorrei avere?”).
Cosa cerca l’utente sul sito aziendale?
B2B o B2C, cambia poco: il sito aziendale deve risolvere dei problemi. Nel primo caso, di logistica, magazzino, approvigionamento, fatturazione. Nel secondo, anche di qualcosa di più sottile che il dipartimento di marketing e chi progetta e crea il contenuto devono aver individuato a monte.
Arredamento, cioccolatini, auto di lusso, passeggini, zaini da trekking, servizi di pulizie per uffici – di nuovo, cambia poco. Il punto è che l’utente deve sentirsi ed essere protagonista della sua esperienza sul sito. Un sito che converte deve essere impregnato della brand identity, ma non deve essere un vanity project dei proprietari dell’azienda. C’è differenza.
Soprattutto quando un’azienda è a conduzione famigliare (con 3 o 3000 dipendenti, non cambia neanche questo), la proprietà vede il sito come uno specchio in cui riflettere la sua immagine e premiare il lavoro di anni, a maggior ragione se appartiene alla generazione boomer. È comprensibile, e non c’è niente di male, perché l’azienda è una figlia e i figli so’ pezz’ e core!
- i suoi genitori (i proprietari dell’azienda) vogliono che sia sempre ritratta nella luce migliore e con le sue espressioni più belle;
- gli stylist (web designer, fotografi e content creator) vogliono rendere l’idea dei vestiti che indossa, suggerendo uno stile di vita;
- la signora che sfoglia Vogue (utente finale) vuole capire se quei vestiti addosso alla sua, di figlia, faranno o meno invidia alla cognata alla festa della Comunione.
Un esempio
Chi arriva sul sito di un’azienda che produce e spedisce ‘nduja in tutto il mondo si aspetta di trovarci:
- quanto costano le spedizioni;
- FAQ su resi, dogane, metodi di pagamento;
- un’ecommerce immediatamente visibile dalla homepage, e lì dentro un carrello facile da aggiornare (togliere e aggiungere);
- schede prodotto con ingredienti, consigli di utilizzo e foto che invogliano all’acquisto (non solo è deprimente trovarci quelle fatte con il cellulare del cugggino, ma fa pensare di trovarsi davanti a dei dilettanti che risparmiano… e la domanda nasce spontanea: ci si può fidare della sicurezza al mometo del pagamento?);
- informazioni su chi è che gli manda la sua ‘nduja, perché lo fa con passione, perché conosce così bene questa prelibatezza.
Ma soprattutto…
- la rassicurazione che riceverà un vero pacco da giù, e riproverà l’abbraccio di nonna Concettina mentre addenta la bruschetta / che anche se non ha mai messo piede in Calabria o conosciuto un calabrese, sta per fare un’esperienza autentica / che potrà fare una figura pazzesca con gli amici e ristabilire chi è il vero gourmet del gruppo.
Gli interessano molto meno:
- la foto dei proprietari in giacca e cravatta al centro e gli operai in camice, schierati a semicerchio;
- i diplomi scolastici del nonno e gli studi all’estero della nipote;
- la timeline di acquisizione dei macchinari di lavorazione;
- la data del primo ISO 9000.
Chi trova un’azienda, trova un tesoro
Tutte le cose severe dette fin qui non vogliono dire che la storia e le persone che hanno fatto l’azienda non hanno valore, ma solo che ci sono dettagli che non ne hanno per l’utente, e che se stanno sul sito diluiscono quelli che ne hanno.
Se il diploma del nonno è immediatamente dimenticabile, il fatto che vincesse ogni anno la gara di bruschette con la ‘nduja della festa patronale invece è un bel tocco. I corsi seguiti all’estero dalla nipote sono una noia, ma se mi racconti che ha conquistato il marito danese facendogli la pasta con la ‘nduja dopo un concerto sotto la pioggia… beh, è tutta un’altra storia. È storytelling, e quello riamne impresso nella memoria perché si lega a delle emozioni.
Lo storytelling ci deve essere, insomma. Ma deve essere sincero, non pretestuoso. Utile all’utente per rendere la sua fruizione memorabile.
Il perché lo ha spiegato bene Tony Brignull dal punto di vista del copywriter in “The Copy Book” (Taschen):
“Il mio copy è migliorato quando ho capito che ci relazioniamo con un’azienda come se fosse una persona. A meno che non siamo investitori, non le chiediamo quanti impiegati ha, come sta messa finanziariamente, dove esporta. Le chiediamo di essere onesta, coerente, modesta, divertente, affidabile. Se lo è, quell’azienda potrebbe finire con il diventare nostra amica. Sono arrivato a pensare che aiutare le aziende a trasformarsi in amiche sia la cosa più importante che noi pubblicitari possiamo fare per i nostri clienti”.
A questo punto diventa fondamentale individuare il tono di voce dell’azienda e usarlo in maniera coerente e costante per farsi riconoscere come quell’amica.
valeria fioretta dice
con l’esempio della ‘nduja mi avete vinta al primo paragrafo