Quando un content creator si presenta a un’azienda offrendo i propri servigi nel digital marketing, deve avere prima ben chiaro cosa può fare per i suoi clienti.
Lo stesso succede quando sono le aziende o le agenzie a fare una proposta: perché una campagna riesce (e i clienti tornano) solo se il blogger/influencer avrà usato coerentemente i suoi canali e le sue competenze.
In altre parole: non bisogna promettere risultati che non possiamo dare né accettare campagne che hanno scopi che non possiamo raggiungere. Bisogna invece proporre idee di digital marketing che sfruttano i nostri punti di forza.
Essenzialmente, un content creator può fare tre cose diverse, e sarà più appetibile se si specializzerà concentrandosi su quella che può fare meglio:
- creare contenuti di posizionamento con un alto valore SEO: servono a costruire una durevole reputazione del prodotto nelle SERP (Search Engine Results Page);
- creare brand awareness: serve a far sapere che esiste un prodotto e/o a far conoscere la filosofia di un brand;
- creare un funnel (imbuto) di vendita: serve a fare entrare il prodotto subito nelle case dei propri follower.
Chi deve fare posizionamento per un brand?
Lavora sul posizionamento del brand nelle SERP il blogger o lo YouTuber che ha esperienza e si tiene aggiornato in campo SEO, come la nostra Barbara di Mammafelice.it.
Non è necessario avere un traffico o un seguito enorme, ma un blog o un canale maturo (proprio in termini di età) e che è forte su keyword ragionevolmente vicine al prodotto o al brand, sì.
Google premierà quei contenuti che:
- se sono blog post: sono scritti bene, sono lunghi (esaustivi, non ripetitivi), contengono header, tag, tag alt nelle immagini, e sono categorizzati con keyword (meglio long tail) che indirizzano l’algoritmo e i lettori verso di loro; se sono video: hanno tutti i campi utili all’algoritmo correttamente compilati, con titoli e descrizioni chiari, semplici e attraenti (“zucchine gratinate al forno: ricetta tradizionale facile” sì; “le ricetta di mia zia Nina buonanima, che le zucchine come le faceva lei nessuno mai” no);
- cadono verticalmente nel cono dei temi già trattati dal blog o dal canale: se io, Sasha, sul mio blog Cakemania.it faccio la recensione di una farina, Google corre; se parlo di un detersivo per la lavastoviglie, rizza subito le orecchie; se scrivo di come si ripara il cambio di un furgonato – per quanto io possa fare un lavoro sublime con la scrittura SEO – non sarò considerata un’autorità in materia e il mio blogpost faticherà a scalare da solo le SERP (potrebbe riuscirci se diventasse un caso mediatico, ad esempio se un grosso player, come un quotidiano online, lo condividesse come una curiosità: “la foodblogger che spiega al tuo meccanico come si ripara un furgonato in 3 mosse”).
Un posizionamento fatto bene riverbera per anni, ed è l’investimento migliore che possa fare un’azienda che non ha bisogno di vendere tutto e subito, svuotare il magazzino e volare in Belize con un biglietto di sola andata.
Chi deve fare brand awareness?
Lavora sulla brand awareness l’influencer che ha un seguito attento che si fida delle sue raccomandazioni. La brand awareness oggi si fa soprattutto sui social.
Anche in questo caso non sono necessariamente i numeri a fare i risultati: un alto numero di follower (dando per scontato che siano genuini) non converte quanto un numero più basso con un tasso di engagement di più alto. È il motivo per cui i nano- (meno di 10k follower) e micro-influencer (tra 10k e 100k follower) sono i più ricercati dalle agenzie.
Il pubblico premierà quei contenuti che:
- sono creati con una voce che parla peer-to-peer (da pari a pari): il linguaggio usato (la scelta dei vocaboli, i colori delle foto, la scenografia del video, il design dell’infografica, le gif etc.) è riconosciuto come valido e onesto, e c’è complicità tra influencer e follower; mio figlio di 11 anni giustamente apre i suoi video in cui recensisce videogiochi con “Bella a tutti, raga”; se lo facessi io che ho 50 anni e parlo di cibo ed ecologia, l’effetto sarebbe straniante e poco autorevole;
- promuovono prodotti che appartengono a quel cono verticale dei temi generalmente trattati: se Raffaella, che ha costruito la sua reputazione su uno stile di vita sostenibile, dedicasse una story sponsorizzata a un furgonato a benzina su @raffaella_babygreen, troverebbe pochissime persone interessate a questo prodotto e si alienerebbe molti follower.
Una brand awareness ben fatta è la versione marketing di “sarà capitato anche a voi /di avere una musica in testa”: non serve tanto a vendere immediatamente il prodotto, quanto a seminare la consapevolezza della sua esistenza, a creare una connessione non aggressiva tra consumatore e brand, in cui il consumatore ha uno spazio di azione autonoma e decide se avvicinarsi per capire se e quanto gli piace quel brand.
La brand awareness quindi non “si appiccica” ai motori di ricerca come fa invece il posizionamento, ma alla mente delle persone: il suo valore si vede nel medio e lungo termine.
Chi deve vendere tutto e subito?
Lavora sul “flash sale” (sull’occasione di acquisto che dura un flash) chi possiede un canale diretto di comunicazione con il proprio pubblico: una mailing list in target, con iscritti che hanno dato il consenso alla ricezione di email commerciali, che può generare quindi legalmente una DEM (direct email marketing).
In questo caso i numeri hanno il loro peso: l’azienda che commissiona una DEM ha bisogno di un buon tasso di apertura perché questo si converta in vendite effettive.
Il prospective client (il possibile cliente) premierà con il suo acquisto quelle DEM che:
- offrono un’occasione speciale con una durata breve e definita (la promozione vale tre giorni), con un codice sconto lineare, facile da capire, meglio se valido su tutto lo shop (“15% su tutto lo shop fino a 3 febbraio 2020 con il codice PROFESSIONEBLOGGER” sì; “6% ovvero spese di spendizione incluse per gli stivali fino al numero 38, esclusi quelli verdi, ma non se di gomma, per 10 giorni dalla ricezione della presente, codice XC%68HNò” no);
- linkano a una landing page ben fatta, in cui la UX (user experience, il modo in cui l’utente riesce a capire l’interfaccia) sia piacevole, intuitiva e non ponga dubbi che interrompono lo slancio verso l’acquisto.
Una vendita immediata presuppone una campagna completamente diversa dalle prime due: è la convenzienza dell’offerta speciale a portare a casa il risultato più che la potenza di fuoco del canale che la promuove. Necessita di un marketing aggressivo (non per niente si chiama “hard sell”, una proposta di vendita insistita), più adatto a una personalità commerciale che creativa.
Instagram sta sperimentando negli USA la versione beta di Shopping from Creators, che consente agli influencer di aggiungere tag di shopping ai loro post per alcune aziende sponsor, cosicché i loro follower possano acquistare immediatamente dal loro feed (si prevede che venga aperta a tutti nel 2020).
In conclusione…
Un autoesame delle proprie competenze, capacità di engagement e di copertura sono fondamentali per posizionare il proprio blog e/o canale.
E una volta che avete capito qual è il vostro punto di forza, usatelo come biglietto da visita e stroncate sul nascere richieste che non sono in linea con quello che potete fare meglio per i vostri clienti.
Io dico sempre: “Salve, mi chiamo Sasha e faccio brand awareness”.
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